IL SIGNOR PAZIENZA
di Nunzio Platania




Ogni volta che doveva salire a bordo la fatica aumentava e le gambe che dovevano sostenerlo mentre saltava sulla murata della paranza sembravano ricordargli che erano sempre meno disposte ad allungarsi come richiedeva il salto...
La sua paranza. L’aveva fatta costruire suo padre e lui ricordava ancora il giorno del varo. Poteva avere otto anni e quando scivolò sull’acqua suo padre tenendogli la mano nella sua gli aveva sussurrato: “Un giorno sarà tua. Trattala bene: ti darà il pane ancora per cento anni”.
Da allora ne erano passati solo settanta e Pazienza sorrise mentalmente pensando agli altri che restavano e ai suoi settantotto suonati.
Aprì il lucchetto della angusta cabina e cominciò la lunga serie di operazioni che lo attendevano. Prima si cambiò di abito indossando il camicione di lana che Mara gli aveva portato da Torino. Mara, sua moglie era morta da dieci anni, e il camicione glielo aveva dato dicendogli: ”Sei già vecchio e quando gli acciacchi si faranno sentire lo metterai anche d’estate”.
Era estate infatti e il camicione di lana lo riparava dalla brezza estiva quando era al largo.
Poi, prelevando acqua dal mare col bugliolo, cominciò a versarla sul ponte, per bagnare la stinta moquette che lo rivestiva. La moquette sulla paranza: un patetico finto lusso per nascondere le tavole corrose e rendere più fresca l’aria ai signori gitanti.

Ricordava il pesce e il fango che per migliaia di volte si era riversato su quelle tavole tanto tempo prima, e la fatica per selezionarlo e metterlo nelle ceste di vimini e poi col secchio toccava a lui lavarlo e ripulirlo dalla poltiglia che si appiccicava, mentre la paranza procedeva a vela per consegnare il pescato ai rigattieri.
“Ti darà da mangiare per cento anni”. Suo padre aveva visto giusto riguardo al mangiare, ma non avrebbe mai potuto immaginare come. Per lui la paranza era uno strumento di lavoro di cui era gelosissimo e mai avrebbe potuto pensare che sarebbe stata un giorno trasformata in oggetto di trastullo per estranei.
Passò lo strofinaccio sulla prima delle tre panche che coprivano per intero la coperta. Lunghi tavoloni su tre file con le panche per sedersi. Prima al centro della barca stava raccolta con cura la lunga rete con i galleggianti ordinatamente avvolti a spirale, odorosa sempre di alga fresca, e attorno pile di ceste piatte fatte di vimini.
Adesso sembrava piuttosto un refettorio di un ospizio dei poveri.
Si chiese per l’ennesima volta se non sarebbe stato meglio venderla a quel signore che un paio di anni prima voleva acquistarla per restaurarla e riportarla - così diceva - agli antichi splendori della vela. Ma lui quella volta non aveva avuto l’animo di separarsene : “E che faccio poi io? Sulla barca ho passato la mia vita se la vendo finisco di vivere “.
Eppoi suo nipote che ormai in giacca e cravatta l’aveva convinto con quel discorso sulla riqualificazione della pesca nel comparto turistico-alberghiero.
“Insomma nonno, arrotondi la pensione e fai ancora lavorare la barca”
E così aveva accettato, al servizio dei gitanti del villaggio turistico.

Come al solito si diresse poi verso l’albero.
Quello che una volta era un albero che reggeva un’antenna con le vele di cotone e le manovre, adesso ridotto a moncherino decorativo, le griselle erano quelle di una volta e gli attacchi di ferro esterni alle murate lasciavano trapelare le tracce di ruggine da sotto la vernice bianca. Col paranco sollevò il centro della cima che portava il pavese e poi fissò le due estremità ai golfari di prua e di poppa.
Infiocchettata, ridotta a mascherarsi come a Carnevale.
Ricordò ancora il freddo e l’umido quando all’alba raggiungevano il porto.
Lui tredicenne infagottato nei vestiti dei suoi fratelli più grandi.
E quando tornavano con le ceste vuote, in silenzio, con le donne che aspettavano sul molo.
E poi a casa; sua madre gli faceva trovare il caffè di orzo fumante e acquoso.

Controllò il livello dell’olio poi accese il motore e si sedette.
Il sole cominciava già a cuocere la moquette e un sottile vapore acqueo cominciava a sollevarsi dalla coperta.
Finalmente spuntarono.
Chiassosi, indifferenti, variopinti. Alcuni giovani, ma per lo più anziani, turisti stranieri e non. Gli ospiti del villaggio.
Cominciò il cerimoniale della salita a bordo. I più giovani sciamarono subito sul ponte posando alla rinfusa i loro borsoni con le attrezzature per le immersioni.
I più anziani esitanti in quell’ultimo passetto per staccarsi dalla passerella e salire a bordo. Le donne con gridolini di finta paura aiutate dai gagliardi e longevi loro coniugi. Tedeschi, milanesi e qualche francese.
L’accompagnatore un robusto giovanotto plurilingue, rivolse il consueto avvertimento a stare attenti, dopodichè aiutò Pazienza a sciogliere le cime d’ormeggio e a scostare la barca dal moletto.
Il vecchio entrò nella cabina dove stava il timone e ingranò la marcia.
Di solito non c’era alcun rapporto tra lui e quella massa anonima di persone che portava a largo per la giornata di mare prevista nella pianificazione del divertimento che il villaggio offriva ai suoi ospiti. Gli schiavi del divertimento - li aveva chiamati una volta un suo amico dottore.
Lui doveva portarli alla secca a cinque miglia fuori; lì calava un’ancora e aspettava l’intero pomeriggio mentre i villeggianti prendevano un bagno e i più arditi scendevano con le bombole ad ammirare i fondali.
Adesso si erano quasi tutti liberati degli indumenti, armati di cappellini e occhiali da sole si erano ripartiti le zone, i più giovani in costume da bagno a prua, i più anziani a poppa seduti sulle panche.
C’era una donna, italiana, milanese secondo lui; parlava, parlava con un’altra donna, ma più che un parlare il tono della voce rivelava un ché di perentorio, un sibilante monologo di sprezzante lamentela. Riusciva nel brusio del motore a cogliere qualche sprazzo di quell’accento cantilenante ma irrazionalmente fastidioso e fuori luogo.
“...non sono mai puntuali... eppoi hai visto la disorganizzazione, non sanno proprio farci... A Portofino è un’altra cosa... oggi poi, questa barcaccia scomoda, non c’è un filo di ombra, niente servizio neanche un bar dove ordinare una bibita fresca.”

Sempre così, c’era sempre qualcuno scontento. Ma che pretendevano che gli facessi il servo. Quelle quattro lire che gli passava il villaggio servivano a malapena a comprare il gasolio, eppoi se vogliono le comodità perchè non se ne stanno al villaggio, serviti e riveriti, a rimpizzarsi a dovere.
Accelerò un poco per non sentire quella voce petulante.
Lo avevano soprannominato Pazienza quando aveva appena 25 anni, perchè non si arrabbiava mai, ma adesso era un poco arrabbiato. Gli sembrava di subire un’ingiustizia di essere umiliato in qualcosa che lo toccava profondamente. E questa traccia di malessere lo accompagnava già da qualche anno, andando sempre più a crescere e a ingrossarsi in momenti come quello.

“Senta autista...”
Se la trovò davanti con un largo ventaglio che soffiava nervosamente, paludata in uno scollatissimo vestito nero, enormi occhiali scuri che lasciavano indovinare occhi arcigni, truccata a dismisura, per nascondere un collo vistosamente rugato. “Senta, io a questo sole non resisto, voglio tornare a terra.”
Pazienza - si disse Pazienza - e poi disse sfiorando il timone - “Non si può, signora, torneremo nel tardo pomeriggio”.
“Macchè pomeriggio, io voglio essere portata subito all’ombra, che in questa barcaccia non si può respirare”. - Il collo adesso aveva l’aspetto e il colore di un pomodoro avvizzito.
“Ci sono anche gli altri e la barca non è a sua disposizione.”
“ Ma che villano, ma sono tutti maleducati in questo posto, ma guarda che roba.” Soffiando furiosamente col ventaglio si allontanò verso la sua amica di prima.
“ Ma la cosa non finisce qui. Li denunzio questi ignoranti, per sequestro di persona. Glielo faccio vedere io come si tratta a questi cafoni.”
L’intenzione era chiaramente di non smettere a vomitare veleno per tutto il tempo.
Si erano avvicinati un po' tutti. Chi mormorava parole di disappunto, chi ridacchiava gustandosi la scenetta.
Un signore tedesco traduceva in simultanea alla sua curiosissima consorte.
L’accompagnatore, il giovanottone aveva cercato di intervenire.
”Veda signora non possiamo tornare indietro solo per lei, gli altri hanno pagato per farsi il bagno a mare... eppoi non è tanto caldo, si può rinfrescare anche lei...”
“Stia zitto lei, non vorrà mica dirmi quello che devo fare... Io voglio essere portata a terra e non si discute, lo dica a quello là che si crede di comandare.”

Fù in quell’istante che dopo mezzo secolo di onorata carriere di paziente, Pazienza perse la pazienza.
Il brusco colpo di timone e l’altrettanto brusca accelerazione fecero ondeggiare le teste di tutti.
Il motore rombava mentre la prua del “S.Nicola” di dirigeva di filato verso la costa in quel tratto brullo e scosceso dove una piccola ansa tra gli scogli permetteva uno scomodissimo approdo.
Pazienza, chiuso nella sua cabina, guardava calmo davanti a se.
Li fece sbarcare tutti. Nessuno commentò.

Solo suo padre da lassù gli apparve e segretamente gli sussurrò qualcosa di personale.

U mari è amaru, ma porta riparu
lu feli è amaru so porta u dinaru
è china la panza di mala crianza
facimuni a meno e santa pazienza.

Pazienza al rientro si fece meglio i conti e si accorse che poteva anche sopravvivere con la solo misera pensione di pescatore, per cui smontò l’addobbo e da quel giorno la sua paranza ritornò a essere il simbolo di quella umile ma sana fatica del guadagnarsi il pane.
Oggi Pazienza aspetta pazientemente che passino gli ultimi dieci anni dei cento promessi da suo padre.



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