Una storia di fantasia della nostra grande Bianca...
Non piu' Vela Vissuta, ma Vela per Sognare.
La Traversata
Il cielo era giallo dall'orizzonte alla linea netta del fronte freddo, dove nuvole
nere si pressavano compatte. Il vento, contrario alla marea discendente, arruffava le onde, che con piccoli guizzi
argentei increspavano appena il mare grigio. Michele si fermò all'inizio della spiaggia sassosa a guardare
Cowes, e il canale, annusando l'aria. Poi si volse verso la Victory, e carezzandone la prua, lucida come un pianoforte
da concerto, girò intorno allo scafo, dalla parte dove era appoggiata la scala.
Salendo in coperta aveva annuito, come ogni volta del resto, al pensiero che la carena era la parte meglio riuscita
di tutto il lavoro. Quando aveva rilevato il ketch - o quello che ne restava - nemmeno lui aveva previsto un risultato
così soddisfacente. Le barche in legno non muoiono mai, gli aveva detto il vecchio guardiano del cantiere,
l'unico che non aveva scosso la testa davanti a quel rottame mezzo sfasciato. Anche se, in verità, della
barca originale era rimasto ben poco: aveva sostituito metà delle ordinate, il dritto di prua, e quasi tutti
i corsi del fasciame. Aveva aggiunto delle paratie interne, per irrigidire lo scafo, e le cabine erano state ridisegnate
con criteri più moderni. Aveva fatto tutto da solo, unendo il tempo alla pazienza di chi vede lontano.
Il piano di coperta, l'attrezzatura e gli alberi erano nuovi, ed erano stati la spesa viva più consistente
che aveva dovuto affrontare. Anche se stonavano un po' con le linee d'acqua così classiche della Victory,
lui non se ne dava troppo pensiero: sapeva che con la barca in acqua non si sarebbe notato.
Quando era partito dall'Italia, nove anni prima, non era in grado di apprezzare questi particolari. Non sapeva
niente di costruzione navale: voleva attraversare l'Atlantico in barca a vela, e doveva procurarsi i soldi e la
barca. Le prospettive anguste del Mediterraneo gli sembravano limitate, rispetto alle sue ambizioni. Cercava una
svolta totale, che comportasse una dedizione assoluta al suo progetto. Portsmouth era sicuramente il posto giusto
per partire: era citato in tutti i libri, anche Sir Francis Chichester era salpato da quella costa. Non ne sarebbe
più nato, uno come lui, non solo per la determinazione con cui a sessantaquattro anni aveva portato a termine
il sogno di una vita - circumnavigare il globo in solitario, battendo dozzine di record ad ogni tappa - ma soprattutto
perché dagli anni sessanta erano cambiate molte cose, e andar per mare era troppo facile, oggi.
Quante volte era stato in pellegrinaggio a visitare il Gipsy Moth, tenuto dagli inglesi come una reliquia, dove
persino la Regina Elisabetta era salita, prima di conferire al navigatore l'investitura di baronetto. In Italia
non sarebbe mai successo niente di simile.
Dopo aver lanciato un ultimo, rapido sguardo alla perturbazione in arrivo, Michele scese in quadrato e si sedette
al tavolo da carteggio. Con le mani appoggiate al piano di compensato marino, rimase ad aspirare i profumi di legno,
di resina, di nuovo della sua bella barca, e poi alzando la ribalta estrasse alcune carte. Aveva già tracciato
le rotte, l'uscita dal Solent, poi sottocosta fino alle Scilly e infine l'ortodromica.
Percorse con il dito quell'arco disegnato a matita, che rappresentava la distanza più breve, tenendo conto
della curvatura terrestre: certo era una rotta provvisoria, ipotetica. In una navigazione vera avrebbe dovuto aggiustarla
di volta in volta con il punto nave. Non importa se con il GPS questo lavoro non è più indispensabile:
basta schiacciare un bottone, e i satelliti danno la posizione, la rotta vera, calcolano anche i possibili errori
dove una volta regnava l'incertezza, e tutto era vago.
A lui piaceva l'idea di seguire la scia dei giganti che erano partiti da qui, ogni quattro anni per la Ostar, e
poi ancora per le circumnavigazioni solitarie o le grandi regate oceaniche. Ne aveva visti prendere il via, schierato
con la piccola folla lungo il muretto a Cowes. Quando le bandiere delle classi si abbassavano, sulla terrazza del
Royal Yacht Squadron, i primi tagliavano la linea, serrati come se si fosse trattato di un triangolo olimpico,
invece erano tremila miglia solo per attraversare l'Atlantico.
Ci sarebbe stato anche lui, prima o poi, là in mezzo; il timone a vento ben regolato, sarebbe uscito in
coperta con la cerata nuova a controllare se tutto era a posto, o a prendere una retta di sole con il sestante,
tanto per costatare che gli strumenti elettronici non mentivano, o anche solo perche' quest'immagine era troppo
bella per non indugiarvi ancora un po'.
Farsi la barba con l'acqua di mare, tenendo d'occhio il branco di delfini che da due giorni segue la barca, o meglio,
lasciarsela crescere incolta e ispida, per avere all'arrivo un aspetto da marinaio duro e puro, selvaggio e faccia
di cuoio. Forse avrebbe preso anche qualche tonnetto con la traina, o si sarebbe accontentato dei pesci volanti
caduti in coperta. E la notte avrebbe assaggiato il sapore dell'immenso, restando ore e ore a guardare la scia
fosforescente, nessuna luce umana visibile, ne' voce che non fosse la sua.
Con un avanzo di sorriso ancora all'angolo delle labbra, aprì i gavoni di poppa e controllò i viveri
stivati, eliminando un paio di scatolette che stavano per scadere. Poi passò a prua: le dotazioni di sicurezza,
i razzi, l'estintore di rispetto.
Soddisfatto dell'ispezione, si infilò nella cuccetta del navigatore, che aveva allargato e imbottito sui
tre lati, creando una culla confortevole per qualunque burrasca, per ogni andatura. Supino, guardava il cielo di
legno poco sopra i suoi occhi, e vedeva la Victory arrampicarsi sull'onda lunga dell'Aliseo, brandelli di nuvole
all'orizzonte, e poi giù in picchiata a quindici nodi, forse venti, col ringhio del vento alle spalle, e
gli spruzzi bianchi là a prua, più alti dei candelieri.
Cullato dal rumore del mare, gli sembrava di sentire il lento movimento del beccheggio, che faceva sollevare dapprima
la prua, e poi tutta la barca, come il suo petto nel respiro profondo e regolare del sonno, che sentiva appesantirgli
le palpebre.
Si riscosse, e infreddolito uscì dalla cuccetta per infilarsi il giaccone nella penombra della cabina.
Rimise a posto il portello, chiudendolo a chiave, e si avvio' verso casa pensoso. I lampioni sulla strada erano
già accesi, anche se non era del tutto buio.
Prima di superare il terrapieno che separava il grande prato dalla spiaggia, si voltò come sempre a guardare
la Victory, ormai poco più che una sagoma scura sullo sfondo opaco del mare.
Era arrivato il tempo di prendere il largo, non c'era più niente da fare, lo sapeva bene. Rimandava di settimana
in settimana il varo, continuava a trovare scuse. Paura? No, non era questo che lo tratteneva a terra. Conosceva
bene il mare, non aveva mai smesso di navigare, era esperto: un buon marinaio. La barca era a posto, l'attrezzatura
migliore, tutto pronto alla perfezione.
Attraversando il prato ripensava con nostalgia alle giornate spese a segare, incollare, inchiodare, e la pazienza
di ricominciare daccapo ad ogni errore. Le notti a studiare disegni, a sfogliare cataloghi, a confrontare prezzi
e prestazioni di ogni singolo componente, dagli alberi al più umile bozzello. Quando l'attesa era il piacere
di una promessa illimitata.
E le accorate discussioni con gli amici del pub, ognuno voleva dire la sua, consigliare o scoraggiare, a seconda
dei casi. Aspettavano tutti che si decidesse, una buona volta.
Avrebbe dovuto pagare da bere, dopo aver rotto una bottiglia contro la prua, e sarebbero rimasti a guardarlo, riparandosi
dal sole con la mano, fino a quando avesse mollato gli ormeggi, fino a quando la scia fosse stata lontana, fino
a quando la Victory non fosse stata più che un puntino invisibile controluce.
Continuò a camminare nella notte, la testa incassata nel bavero rialzato,
i pugni stretti nelle tasche del giaccone da marinaio.
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