LA RIVINCITA
di Nunzio Platania




Aveva veleggiato felice, quella domenica, con la sua nuova fidanzata.
Era la prima volta che la portava in barca e per lei era la prima esperienza velica.
Si erano conosciuti appena una settimana prima e quindi lui si trovava in quella fase del corteggiamento in cui un maschietto ce la mette tutta a esibire le sue qualità virili.
E tra queste certamente la più prestigiosa era mostrare le sue bravure veliche.
Le aveva parlato con enfasi delle prerogative che ogni comandante aveva a bordo della sua unità, delle decisioni inappellabili, della pericolosità della democrazia a bordo, dove soltanto uno doveva essere a decidere e il pezzo forte fu quando annunciò ammiccando che lui poteva anche celebrare matrimoni a bordo della sua barca.
Talmente riconosciuta era la sua autorità anche da parte delle autorità terrestri.
La fanciulla lo guardava ammirata e trepidante.
Lui gongolava felice per la riuscita della conquista, mentre la barchetta scivolava elegantemente verso il porto d’arrivo. Il programma prevedeva una sosta per il pranzo a bordo e poi, prima di sera, rientro al porto di partenza. Cinque miglia più a sud. Ma l’attracco nel porticciolo, destinato ad ospitarli per la sosta, si annunciò già come un piccolo neo nella, fino a quel momento, riuscitissima giornata. Non c’era un posto libero lungo il moletto; fece tre volte su e giù, poi finalmente un motoscafo accese i motori e di lì a poco liberò un poco di spazio.
Ormeggio perfetto. Alla fanciulla ormai promossa a mozzo assegnò l’incarico di mettere i parabordi previa breve lezione sul nodo giusto da fare.
Poi dentro, cominciò a farsi da fare con i fornelli, pregustando un romantico e gustosissimo pranzetto. Spaghetti al sugo di vongole.
L’acqua bolliva già e il nostro aveva appena messo giù gli spaghetti quando all’improvviso uno stridio di gomme sopra la loro testa e poi una voce urla: “Senta... !”
Si affacciò dal tambuccio.
Un marinaio di leva della capitaneria, su una motoretta, senza berretto, capelli arruffati, concitatissimo, gli intima :”Lei qui non ci può stare, deve andare via...”
Inutili le richieste di spiegazioni; il povero marinaio sembrava terrorizzato, eseguiva un ordine perentorio del Comandante del porto, cosi diceva, ma parlava come se dall’esito di quella missione affidatagli dipendesse la sua stessa incolumità. “Ma perché proprio io.. ?”. Il nostro romanticone non riusciva a dissimulare la sua stizza.
C’erano decine di imbarcazioni ormeggiate sulla banchina.
“Deve andarsene ! Altrimenti sono costretto a fare venire la motovedetta che le farà il verbale”. Anche la minaccia...
Giornata rovinata, anche gli spaghetti e che figura con la donzella.
“Adesso penserà che le storie delle prerogative del comandante sono tutte frottole.
Altro che sulla sua unità comanda solo lui...”
Molla il doppino a terra, si sposta a prua per tirarsi sull’ancora e improvvisamente realizza.
All’imboccatura del porticciolo fa la sua apparizione il coso.
Tre piani. Ai comandi sull’alto Flying Bridge un giovanottone, abbronzato, maglietta abbagliante firmata, cappello con visiera Ammiraglio di Squadra navale, intarsi in oro puro.
Nababbo o figlio di sceicco bianco.
Almeno tre miliardi di rombante coso che si piazza proprio sopra la sua ancora, incurante del fatto che lui deve poterla prima salpare per lasciare il suo sudatissimo posto al super raccomandato, che era il responsabile dell’iniquo sloggiamento che stava subendo.
Furibondo, alando sulla catena, arriva fin sotto la murata del bestione; da sopra varie ochette semi nude lo guardano con sufficienza. Un marinaio servo nero ma biancovestito, cala un enorme parabordo per proteggere il nobile bene da quella stupida barchetta che ancora intralcia la manovra di attracco di quel po po di capitale.
Senza aspettare il Megacomandante smanetta, ruota il mastodonte, adesso dalla poppa un ruggito vomita esalazioni mefitiche a un metro dal naso ansimante dello sfrattato.
Ancora prima che l’ancora fosse tutta a bordo sei divise militari gallonate, spuntate di botto sulla banchina, si mettono al servizio di Sua Maestà, raccogliendo le cime linde che volano dal bestione, il quale nel frattempo ha già messo un’ancora immacolata in acqua ed entra di prua con prepotenza facendosi largo a forza di motore, con sfregio delle cime delle barche adiacenti e riesce a trasformare l’angusto spazio prima occupato strettamente da un barchino largo due metri in una voragine larga sei metri.
Il nostro è adesso imbestialito.
Perché proprio il suo posto? La risposta gli appare subito evidente appena è al centro del porto e può guardare l’intero panorama: la sua è la sola barca a vela. Cane non mangia cane. Le altre barche motorizzate appartengono allo stesso censo. Non si sa mai, meglio fare sloggiare il pezzente con barchino di sette metri che non si può permettere se non un motoruncolo di sei cavalli.
L’immaginava nei dettagli la scena. Il plutocrate che a 15 minuti dal porto annuncia via radiotelefono alla capitaneria il suo capriccio di volersi fermare per una breve sosta, declinando certamente il suo albo genealogico, dopodiché il comandante del porto spedisce in avanscoperta il terrorizzato marinaio con l’ordine di trovare immantinente un posto per l’arrivo del magnate e si affretta pure a preparare l’accoglienza con picchetto d’onore.
Manco fosse il Capo dello Stato.
Disgustoso.
Ma anche gli spaghetti immangiabili.
Giornata rovinata. L’umore non si presta più a svenevolezze amorose.
Si ficca in mezzo alla zona dei pescherecci.
Trova un posticino affiancandosi ad un lurido e puzzoso barcone da pesca.
L’olezzo è insopportabile, spaghetti a mare. Crakers e olive. Pazienza.
Si torna a casa.
“Speriamo di fare almeno una bella veleggiata”.
Vento sui 10 nodi. Di prua. Bordeggio lungo, verso il largo.
Dopo un’ora sfreccia un gommone almeno sette metri. Nuovo fiammante. A bordo il plutocrate con il suo harem, passa a 10 metri, la sua scia è una voragine in cui a barchetta a vela casca miserevolmente.
Le budella sono corde di violino.
Si ferma mezzo miglio più in la.
Dritto davanti alla rotta della vela.
Dalla suite nautica ora si odono gli schiamazzi delle giulive geische che starnazzano mentre si tuffano e risalgono in continuazione.
“Ci passerò in mezzo se non salgono” - si dice il derubato, alla ricerca di una inconscia vendetta.
La navigazione di bolina ha le sue regole, perbacco, e la barca richiede assolutamente di andare sopra le loro teste.
Qualche centinaio di metri prima, si sentono improvvisamente urla concitate.
Dev’essere successo qualcosa: il dongiovanni aiutato dalle completamente nude concubine fatica a salire la scaletta del gommone.
Due pornodive si sbracciano, :”Aiuto... Aiuto !”
Si accosta, cappa perfetta sopravvento.
Il belloccio nel risalire in barca si era presa una cocuzzata in testa dal piede del suo motore fuoribordo che gli aveva aperto una nuova porta sul cranio.
Era tutto insanguinato.
Mezzo intontito, le fanciulle terrorizzate (qualcuna si copre, per modo di dire, però, perché il bikini più coprente assomiglia ad un fazzolettino da tasca).
Paperone chiede farfugliando se si può trainare il gommone.
Lui non se la sente di condurlo, trema tutto poverino: non aveva mai visto il suo sangue e, figuriamoci, neanche quello degli altri lui ha mai visto.
“Niente da fare” - dice il Comandante dell’unità soccorrente.
“Il gommone rimane alla deriva, con l’harem completo: le sei pornogirls rimangano in attesa di soccorsi che verranno spediti sollecitamente non appena il vile barchino sarà arrivato al porto con il ferito, il quale, lavato con popolana acqua ossigenata rivelava avere poco più di un graffio e quindi verrà traslocato lemme lemme a propulsione velica al pronto soccorso.
Bolinando, con calma, senza motore, “Forse lei non sa, ma si fa prima...
Radiotelefono? No, mi dispiace niente preavviso telefonico all’ospedale, per convocare massimi specialisti in chirurgia plastica.”
Durante l’ora successiva punzecchiamento ironico, ma con dolcezza, dissertando sulla solidarietà degli uomini di mare. Parlando di etichetta marinara, del mare che rende gli uomini tutti simili, umili di fronte alla sua grandiosità. Citando Conrad, Moitessier, la parabola del buon samaritano, S. Michele e il mantello diviso col povero, ecc.
Lui si lamenta: è proprio un bamboccio. Probabilmente non l’ha riconosciuto, ma che importa, forse non l’aveva neppure “visto” prima.

Il salvatore è adesso ripagato dal furto del posto che aveva subito, ma soprattutto ha ripristinato le prerogative del comando della propria unità.
E con esse, completata l’operazione di conquista della sua nuova fidanzata.

Quando venne scaricato su un taxi, non lo ringraziò neppure.
Lo Stato maggiore della Marina si precipitò nottetempo a salvare le fanciulle alla deriva. Si affrettò pure a fare pervenire con urgenza una patente nautica allo zuccone ricucito, perché nel frattempo un incauto maresciallo della Capitaneria aveva sciaguratamente evidenziato che lo skipper del mastodonte ne era sfornito.

(E’ parzialmente inventata, ma rende l’idea vero ... ?)



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