SIRENA
di Nunzio Platania




Era da sempre stato un sognatore.
Da piccolo sua madre, se n’era anche preoccupata di quella sua aria sempre svagata, delle sue repentine domande su cose che nessun altro vedeva o se ne curava.
Quella volta che aveva chiesto con un tono allarmato che fine facesse il suono quando non si sentiva più, anche suo padre di solito più accondiscendente alle sue estrosità, si risolse che qualcosa non andava e quindi a 10 anni lo portarono ad una visita specialistica.
Ma la diagnosi fu che era un sognatore, dotato di una fervida fantasia e forse anche di doti extrasensoriali. Ma questo lo si sapeva già e quindi col conforto della scienza da quel giorno lo lasciarono in pace.

Adesso che aveva quarant’anni, si era fatto una famiglia, aveva un discreto lavoro, era riuscito ad attraversare dignitosamente tutti gli atterraggi dalle nuvole che gli avevano imposto col ricatto delle esigenze pratiche della vita, lui sentiva che il sommesso universo, brulicante di sensazioni non condivise con nessuno, si era fatto più pressante e reclamava più che mai di venire fuori.
Per lunghi decenni aveva sacrificato il suo mondo visionario, piegandolo alle brutale consistenza delle cose doverose, soffocando le sconnesse insinuazioni che la sua mente suggeriva e ritagliando di esse spezzoni innocui per offrirsele di nascosto, baratto delittuoso di beni inconsistenti con fragrante pane di cui nutrirsi veramente.

Il mare e l’aria erano i suoi elementi. Lo svagato suo galleggiare sopra le cose, quel costante sopimento con cui le faceva le cose, lo facevano appartenere all’aria.
Ma era nell’acqua il suo destino.
La costante mutevolezza dei legami delle sue particelle, la provvisoria compattezza ingannevole del suo sembrare cosa unica, riflettevano la stessa trama di cui si sentiva costituito.
E nel mare si cercava...
Da un paio di anni possedeva una barca a vela con cui era solito appartarsi e assieme ad essa incontrarsi con le sue fantasticherie.
Tutte le volte che usciva spinto dal vento, era come se la quiete del silenzio gli facesse da riparo, da filtro, dai suoni dissennati che la vita ordinaria gli imponeva e nel rifugio dello sconfinamento sensoriale poteva abbandonarsi all’ascolto delle sue voci.
Non era fuga dai frastuoni la sua, era ricerca, ritrovamento di altri suoni, quelli che gli suonavano dentro, che gli altri non udivano, che lo confinavano in una solitudine abitata da evanescenze sublimi, da sprazzi di luce caleidoscopiche, rutilanti fantasmagorie di forme indistinte ma invitanti, sfuggevoli e insistenti.
Ma nascoste ai suoi simili.
Se l’era chiesto tante volte perché. Perché a lui era dato di udire ciò che agli altri veniva nascosto. C’era in quella domanda qualcosa di inquietante, di arcano, per la quale sembrava che ogni risposta possibile suonasse blasfema e irriverente.

E allora, senza domandarsi più nulla, si tuffava nelle voluttuose spire di ricordi che non erano veramente tali. Ce n’era uno che lo inquietava da sempre.
Si trattava di quelle sensazioni che non assomigliavano alle altre, che si levavano dalla coscienza come esili, fatue immagini non collegabili ad un’esperienza precisa, non erano ricordi di eventi vissuti e neppure assomigliavano a immagini acquisite da altri, stavano piuttosto al limite tra la traccia di un sogno e la scia che lasciano nella mente quei desideri allucinati, il cui vigore dei segni racconta soltanto dell’intensità struggente del desiderio che li partorisce.

Era certo che avevano parlato, ma se si chiedeva quando e come, tutto rimaneva muto, senza appigli mnemonici, eppure la sensazione era che si trattava di una conversazione protratta per un tempo lunghissimo, quasi eterno, E se poi tentava di mettere ordine nei dettagli, un vuoto flocculante si ritagliava spazi semantici come se soltanto quelle e non altre figurazioni verbali avessero il potere di rappresentare la struggente sensazione di pace e di colmamento d’amore che provava.

Ricordava di aver ricordato tutto ciò da sempre.
Soltanto in tempi recenti però, per uno strano capovolgimento della mente, all’evanescenza delle forme si era improvvisamente sostituita, solo per brevi attimi, una forma distinta, ma magica, mitologica.
Era quella di un giovane corpo femminile, intravisto nella trasparenza del mare, levigato corpo coperto di alga-capelli, sinuoso e invitante, spezzettato dal luccichio riflesso degli specchi marini, e poi cangiante nel profondo blu, immerso anch’egli in una danza senza il peso di nulla, a ruotare lento, scendendo in abissali silenzi, accompagnato da suoni strappati a strumenti mai inventati, vellutate tracce di vibrazioni che entrano dalle pelle, da tutta la pelle, e dal naso, e si fondono con ciò che dagli occhi esce, per poi rientrare daccapo, come nel sogno, miracolo dell’impossibile, in un susseguirsi di scene, miscuglio di felicità immensa.
Per poi concludersi, ricomparendo, corpo solare, inondato da luce dorata, poggiata, lasciva, su una pietra lambita dall’onda, scultura mitologica di libro di scuola. Sirena.
Era durato un attimo il capovolgimento. Intenso, e votato alla sorte sublime delle fantasie infantili, aveva piazzato nella sua mente quell’unica traccia adesso delineata dalla giustapposizione di tali scene emblematiche, ma adesso a dare corpo a quell’imprendibile languore indistinto che da sempre lo accompagnava. Cos’altro fare adesso, se non rievocarla come fallace ricordo di qualcosa di accaduto, ma non vero, solo la vivida impressione come se ciò lo fosse, eppure rievocabile con tutti i connotati della certezza e della vivacità che nel ricordo assumono i colori, il suono non descrivibile ma ormai registrato, melodioso, monofonico accompagnamento fissato come eco incantata di una sola lunga nota.

Cosa si era detto con la sirena?
La questione evidentemente era mal posta perchè ogni volta che tentava di ricordare, di capire, per quanti sforzi facesse, assisteva al dissolversi dell’indistinta figura, allo spezzettarsi dell’immagine, come incapsulata in pezzi di specchio rotto che profondavano negli abissi, e poi nulla ; la nota si allontanava inseguita dalla sua eco che si fa sempre più flebile fino allo spegnersi e al riapparire dei rumori molesti del giorno che era attorno.
Come per una punizione, si dissolveva e spariva la visione.
Un magico ma doloroso gioco ripetuto per anni, il rincorrere un’indistinta certezza, in quieto prima, affannoso in seguito, tentare di afferrare le tracce che non sono tali neppure oltre la coltre che vela i ricordi, ma solo impressioni di ricordo, che tentano di assumere forma e nel farlo perdono il contatto con l’aria in cui galleggiano e poi cadono. E poi un’altra volta a ripetere lo sforzo, senza accanimento, quasi un’ossessione, giocosità dolorosa, ma sempre con il medesimo esito.
Sfugge, sfuggirà ancora e per sempre?
Era un’altra la strada da cercare.
Chiedere un incontro, una conferma; come un innamorato che sente svanire piano piano dal ricordo l’immagine dell’amata, e mosso dalla sofferenza che rasenta l’abisso della morte, adesso con struggente urgenza sente che occorre cercare un ricongiungimento, che se svanisce un’immagine mentre cerca di avvicinarla per placare il tormento della lontananza, è la vita stessa, ben più del ricordo, che si allontana.
E così tutte le volte che usciva in mare, raggiunto il sublime momento in cui lo stacco col mondo si era concluso, a volgere lo sguardo dentro, ma anche fuori a catturare nei cangianti umori del mare quel suono, quelle forme, nel luccichio spezzettato della sua luce, nel suo promettere, con l’onda che arriva, la perenne possibilità del nuovo, che delude appare, perchè un’altra onda segue e rinnova la speranza; finché, finché ...
Finché apparve.
Non era né giorno né notte, non era sveglio né dormiva, si cullava in quel dolce dentro-fuori in cui ritrovava e ricuciva le metà di se stesso.
Stava davanti a lui, coperta solo da lunghi verdi capelli, struggente bellezza da sempre desiderata e gli parlava, con il suono melodioso delle note abissali.
Adesso ricordava o ascoltava per la prima volta, non c’era una differenza tra queste due origini, come di parole già note, di cose già dette; le promesse, gli inviti, riapparvero netti alla coscienza, i ripetuti amplessi, le carezze, gli sfioramenti nel vuoto assoluto delle acque turchesi, e i languidi sospiri, estatici momenti di gioia sublime già vissuti, ma da sempre trattenuti dalle tenebre del vero, maestose sorsero, scoccarono dal lembo del già vissuto, ma cancellato, rimosso, da sempre obliato, nascosto nelle pieghe inconfessate del desiderio, e corsero incontro all’intimo e primevo desiderio di fusione. “Vieni con me”.
Si lasciò scivolare, non più trattenuto, bramoso adesso dalla brama d’estinguersi, ma ricongiungersi alle visioni, adesso inviti, dentro le sinuose braccia accoglienti.

La vita gli si sfilò di dosso come un flaccido vestito prestato, per una festa a cui non era mai stato invitato.



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