IL SIGNOR CONFETTO
di Nunzio Platania




Tirava un forte vento di libeccio quella mattina e il mare, dopo due giorni di quella tiritera, si era veramente ingrossato e rombava maestosamente frangendosi contro l’esterno del molo.
Nel bar del porto, imbacuccati a dovere, i soci del circolo si davano automaticamente convegno la domenica, quando c’erano simili giornate.
“Brr! - barrì Confetto entrando.
Confetto era uno grande e grosso, sulla trentina, faceva il rappresentante di sanitari (vendeva cessi, dicevano i soliti denigratori), L’avevano soprannominato così al circolo perché amava vestirsi scegliendo sempre tenui tinte color pastello: dal verde pisello al rosa confetto, che era appunto la sua passione. A vederlo era uno spettacolo: due metri e cento chili di confezione dolciaria.
Anche quella volta era imbacuccato pure lui in un giaccone al pistacchio, orlato di un bel collettone peloso color malva e che lo faceva assomigliare a un gigantesco uovo di Pasqua. Ed era pure raffreddato.
Per cui entrando, dopo una potente trombazzata dal naso, annunciò:
“ Che tempo, ragazzi, la fuori tira che è un piacere.”
Ordinò poi il solito caffè a Tonino, il barista che a furia di frequentare gente spiritosa soleva cimentarsi in battute, a dir suo, spiritose e che quindi quella volta se ne usci con una battutaccia maldestra.
“ Ma voi non siete quelli che vi vantate di uscire con le vostre barche con qualsiasi tempo, ah?”
Nella sua carriera di aspirante spiritoso non si era mai azzardato a tanto, per cui alcuni lo guardarono storto con l’evidente scopo di far rientrare nei ranghi il plebeo, altri lo ignorarono, solo Confetto raccolse la battutaccia e sbottonandosi il giaccone al pistacchio, si lasciò scappare un:
“Ah! Io per me se non fossi raffreddato, con questo mare mi divertirei...”
Bisogna sapere che Pistacchio godeva fama di essere un po' spaccone, un po’ credulone, un po’ ingenuo e, come tutti i giganti un po’ corto di discernimento, essendo che la sua lingua partiva sempre qualche attimo prima che il cervello le desse il comando.
E in una mattinata come quella, simili esemplari di rara fattura costituiscono un ideale diversivo per non annoiarsi. Infatti, cogliendo a volo tale prospettiva, il dott. Bellavista, noto cardiologo, si fece avanti nella conversazione e con il tono da serpente che corrispondeva esattamente al personaggio sibilò:
“Eh! Confetto non può bagnarsi il vestitino col pellicciotto, eppoi lui che è un fifone; figuriamoci...ce lo vedo fuori con la sua barca di pastafrolla!”
Il suo compare, l’ing. Ferrante, palazzinaro con diploma di consumata perfidia, adocchia la tagliola in cui sta per essere preso il gigante bamboccio e aggiunge:
“Tanto vale cominciare a organizzare i soccorsi per andare a riprenderlo in mare, ancora prima che parta.”
“Parte chi?” - chiede l’ingenuo Confetto.
“Ma tu, non vorrai mica tirarti indietro. Hai detto che volevi uscire con la tua barca, no?”
“Veramente...” farfuglia il gigante.
“Facciamo così, usciamo con due barche, così se ti succede qualcosa ci siamo noi a tirarti fuori dai guai.
Confetto ebbe uno di quegli attimi di smarrimento che lo prendevano quando gli altri gli mettevano in bocca una verità a lui ignota e lui si sentiva obbligato a barattare il suo convincimento personale con ciò che gli veniva propinato. Quindi, dubitando di aver detto quello che aveva detto, prese per buono quello che gli fecero credere di aver detto e un po’ frastornato dopo un’occhiata tutt’intorno a quel branco di iene affamate che lo circondavano, tenta un confuso:
“Veramente è il caso di uscire...?”
“ Ma certo! - fecero in coro i cari soci - andiamo tutti a mare e al diavolo il maltempo e i raffreddori”
Pacche sulle spalle dell’uovo pasquale e tutti a dirigersi verso le rispettive barche.
Quella di Confetto era un modesto Comet di otto metri, di solito lui usciva da solo, ma quella volta un po’ di fifa ce l’aveva sul serio, per cui, dopo un timido tentativo di avere compagnia a bordo, si rassegnò e cominciò a preparare la sua barca. Con la coda dell’occhio seguiva gli altri che vedeva fare altrettanto quindi fidando nell’altrui competenza arrivò a fugare i residui dubbi sulla inopportunità di mettersi in mare con quel tempaccio e uscì.
Due mani di terzaroli e tormentina.
La barca ancora dentro il porto partì sbandatissima.
Ma appena fuori, al traverso cominciò a rollare micidialmente. Le onde erano altissime e lo colpivano al fianco ingavonando sottovento la barca che aveva l’acqua stabilmente alla falchetta.
Di tanto in tanto Confetto, alle prese con una barra che richiedeva continui aggiustamenti, sbirciava indietro cercando segni di altre barche, ma dei suoi coraggiosi amici che l’avevano convinto a sfidare quel mare, neanche l’ombra.
Lui non sapeva che i suoi compagnoni si erano ben guardati di tirare fuori il naso dai loro giacconi di yachtmen e che adesso se ne stavano al calduccio dentro la sede del circolo a sbellicarsi dal ridere per lo scherzo che gli avevano fatto.
Quando dopo una buona oretta si affacciò nella sua mente la certezza che l’avevano ancora una volta buggerato ben bene, si convinse quindi a tornarsene ancora una volta con le pive nel sacco.
Ma una volta con il vento sul naso Confetto realizzò subito che stavolta i suoi deliziosi amici l’avevano messo in una seria difficoltà. La barca non ce la faceva ad avanzare con l’onda frangente che la respingeva e innalzava la prua ad altezze vertiginose per poi ripiombare con un tonfo micidiale nel cavo successivo.
Confetto ormai inzuppato sotto la cerata, cominciò veramente ad avere paura.
Sicché rimise poppa alle onde e prosegui nella direzione opposta.
C’era un porticciolo a cinque miglia e il nostro ci si diresse sperando in una entrata facile, giacché il porto aveva una imbocco che lo costringeva a mettersi di nuovo al traverso.
Ma come sempre accade Allah gli fu favorevole e con l’aiuto di alcuni pescatori riuscì ad ormeggiarsi in quel luogo. Fu quando si fu sistemato alla meglio che da un anfratto del suo cervello parti un guizzo di umano risentimento che fece lavorare la materia grigia in un modo del tutto inconsueto alle sue abitudini.
Confetto penso di rendere pariglia. Sarebbe rimasto nascosto in quel porto senza dare segni di vita per tutta la giornata, giusto per regalare a qualcuno un po’ di apprensione circa la sua sorte.
E, infatti, nel tardo pomeriggio i suoi amabilissimi soci, che per tutta la mattinata avevano aspettato per gustarsi il divertimento, non vedendolo arrivare cominciarono ad impensierirsi e a qualcuno venne il sospetto che forse l’avessero fatta grossa.
Il branco cominciò a scindersi: chi preso da senso di colpa per aver partecipato a quella che sembrava essersi trasformata in tragedia, cominciava a sentire il peso del rimorso e voleva dare l’allarme alle forze dell’ordine, chi furfantescamente si difendeva respingendo le accuse diffamatorie che parlavano di delitto colposo, chi eroicamente suggeriva di risolvere la faccenda in famiglia, anche per evitare che potessero sorgere si complicazioni legali e andare quindi con proprie barche a cercare il malcapitato, che chissà in quali guai si trovava adesso a causa di quello stupido scherzo.
Prevalse il partito degli eroi. Dieci volontari che si distribuirono, armati di binocoli su una grossa imbarcazione a motore e una pilotina, uno a cercare Confetto verso Sud l’altro verso il largo.
Il mare era nel frattempo peggiorato. Da drizzare i capelli.
La pilotina arrancava e rotolava nelle onde come un turacciolo.
L’altra pesantissima avanzava a stento, quando con uno schianto, si ruppe il timone. A bordo i sei cominciarono a sentire sulle loro spalle il peso della giustizia divina.
Si attaccarono al radiotelefono e dall’apparecchio di Confetto che, chissà per quale altro scherzo della intelligenza dissepolta, costui teneva acceso, cominciarono tra crepitii e pause ad a udirsi singhiozzanti implorazioni di soccorso.
Confetto era adesso un altro.
Balza fuori dalla sua barca dove stava facendo la pennichella e si fionda su un vicino peschereccio dove alcuni pescatori trafficavano a preparare dei conzi.
Li informa del messaggio di soccorso e li convince ad uscire, allettandoli con la promessa di una adeguata ricompensa Confetto si propone di accompagnarli asserendo di sapere dove si trovavano.
Il comandante accetta e lo imbarca su quel robustissimo mezzo di soccorso.
Appena fuori, dalla radio, le concitate voci dalla imbarcazione ormai alla deriva, li guidano verso la barca in pericolo.
Confetto è adesso un leone.
Agguanta la cima che i quasi naufraghi gli lanciano.
La fissa saldamente al bittone di poppa e durante il tragitto di ritorno se la gode a vedere la infelice barca al seguito senza timone arrancare a zig zag sulla scia del mezzo di soccorso.
A bordo c’è anche il dott. Bellavista che si busca un bernoccolo sulla fronte sbattendo contro lo spigolo dello sportello dello stipetto che si apre durante gli sballottolamenti del rientro. Scornati e bagnati, all’arrivo si pattuisce un felice esito dello scherzo domenicale: duemilioni.
“Se non ci fosse stato Confetto fuori...sarebbe finita male”- dice qualcuno dei sopravvissuti accennando ad un sentimento di gratitudine.
“Meno male che ce lo abbiamo spedito noi stessi “- replica il palazzinaro per non perdere il vizio di trarre profitto dall’altrui fatica.
La domenica successiva Confetto si presentò con un elegantissimo vestito grigio fumo e entrando nella sede del circolo esclamò: “ A qualcuno qui dentro i dolci fanno male.”
Adesso lo hanno soprannominato “ Il bisonte” per via del fatto che quando avanza i soci del circolo si scansano riverenti, per schivare le sue cornate.



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