Ciro e il mare....

Thu, 25 Apr 2002

 

Un tre ruote scoppiettante si ferma all'ingresso del marina, il rombetto
intermittente della marmitta stride con i suoni dell'ambiente.
Una botte da duecento litri grava in modo precario sull'assale posteriore e
il mezzo pare spaccarsi da un momento all'altro.
La sbarra di accesso si alza e con un fragoroso scrac si innesta la marcia e
lo scoppiettio si avvia verso le barche.
E' arrivato Ciro.
 
Ciro è un vecchio marinaio, un vecchio pescatore, un uomo "esperto" di vita.
Bastano due parole e in lui si scopre la saggezza e quella sicurezza di
pensiero propria di alcuni uomini che hanno vissuto intensamente e con
estrema emozione la propria vita.
Come Angelo, suo "collega" nel marina, è uno di  quei piccoli microrganismi
utili al mondo macroscopico, che eseguono alacremente tutte quelle piccole
funzioni di cui spesso non si sa nulla.
Oggi si reca a fare nafta a qualche diportista, domani laverà una coperta,
poi riparerà un molla di ormeggio o una passerella.
 
Nel marina, quello che c'è ma non si vede è Ciro.
 
Con i suoi quasi ottant'anni, la maggior parte legata alle vele da lavoro
dell'adriatico, potrebbe essere il classico uomo da citare come esempio di
quel romanticismo legato al mare, ma Ciro non va mai oltre l'ultima
banchina, non arriva nemmeno alla metà del canale del porto e se gli
chiedete come mai, lui risponderà che è stanco.
 
A Ciro il mare l'ha stancato, Ciro il mare lo ha vissuto, Ciro il mare lo ha
patito, Ciro lo ha fatto davvero.
 
Alla notte partiva, arrivava fino a 25 miglia in mezzo all'adriatico, in
flotte da quattro o sei trabaccoli, poi aspettava.
Le reti spesso si issavano vuote, e quindi si doveva ricominciare da capo,
la pesca era dura, niente fishfinder, niente eco, solo l'esperienza e ...la
fortuna.
 
Anche quattro giorni di seguito in mare, senza toccare terra, fino a che il
pescato non  fosse tale da essere definito buono.
Sole, nebbia, bello e brutto tempo non facevano differenza, i giorni erano
sempre uguali, faticosi e massacranti, sette su sette.
Pane ed acqua  erano il cibo di Ciro e dei suoi compagni, reclusi al largo
dal destino che li aveva visti nascere sulle rive del mare.
 
Quando un groppo, una nuvola ad incudine si avvicinava, nera e pesante, non
c'era il motore per scappare, così era obbligato il coraggio per entravi,
per non farsi sorprendere da un colpo in poppa, si doveva conoscere quanto
fosse  forte il vento, poi ci si metteva a lavorare per uscirne indenni. Il
fortunale non si chiama così per caso, il fortunale si chiama così perchè ci
voleva fortuna ad uscirne.
 
Scrivo questo perché ho trovato in quest'uomo la dimostrazione di quanto ho
sempre sostenuto.
Ciro, è il monito a quel romanticismo che vuole gli uomini e  il mare,
accomunati essenzialmente in un caldo abbraccio.
Parlare con lui può deludere tanti benpensanti, ma mette tutti coi piedi per
terra, quella terra che avendo sempre sotto non si capisce che è comunque un
luogo ove si potrebbe cercare la propria serenità, senza credere
ingenuamente che, oltre la schiuma sulla sabbia,  possa avverarsi l'utopia
dei nostri desideri.
 
                        Mauro